Faceva rumore quel portone. Un cigolio assurdo, di quelli che fanno i portoni di quei vecchi film che ormai non passano neanche più in tivù. E non c’è mai stato verso di farlo tornare a posto. Non che non ci avessimo provato, voglio dire. Ma alla fine la spuntava sempre lui. Non c’era olio, grasso, zeppa o improperio a mezza bocca che tenesse. E allora ci fermavamo, ci guardavamo e sorridevamo.
A quel punto non ci era rimasto che rassegnarci, fino a che quel cigolio era diventato quasi rassicurante, familiare. Certo, era un po’ più arrogante del suono delle perline della tenda a fili di Roberto, o dello stridio sommesso del portone di Gianpaolo, ma tutto sommato sentirlo ogni sera significava che dietro quelle porte, sotto cui filtravano le luci accese, c’eravamo tutti noi. Perché il senso è proprio questo, in fondo: “Un paese vuol dire non essere soli”, scrive Pavese ne La luna e i falò. E non è tutto.
E con quel portone, appunto, non si riusciva proprio ad essere soli, neanche a volerlo. Neanche quella mattina, saranno state le sette, o forse addirittura prima.